Secondo appuntamento con le interviste ai TaranProject.
E' di scena Andrea Simonetta, che dalla sua postazione sulla destra del palco, sempre concentrato ed assorto, offre al gruppo molto più che le melodie di chitarra classica.
Andrea è l'autentico baricentro del sound TaranProject, è lui a dare il la a gran parte dei brani, a dettarne i tempi e sostenerne l'atmosfera; lo fa esplicando la sua personale arte dell'arpeggio, in cui l'apparente semplicità cela la capacità straordinaria di cogliere il nocciolo espressivo essenziale di ciascuna canzone, di rendercelo palese e accattivante, di illuminarci la via più naturale per assaporarlo.
A parte qualche apparizione estemporanea ai tempi di TaranKhan, come recentemente documentato, Andrea fece il suo ingresso ufficiale nel giro con gli Atnarat, il primo gruppo di Cosimo Papandrea con Fabio Macagnino, nel 2005.
Non è certo un caso che da allora in poi non c'è stato progetto di cui Andrea non sia stato figura cardine: SonuDivinu, Gozzansamble, Bassa Marea, KarakoloFool, TaranProject... solo lui è stato membro di tutti questi gruppi. E' perché della sua discreta e sapiente presenza non si può proprio fare a meno!
L'attesa dei fan di vedere un giorno o l'altro Andrea ballare, o semplicemente partecipare alla processione di “Santu Roccu”, è destinata ad andare invariabilmente delusa; ma il suo imperturbabile aplomb è divenuto elemento caratteristico, vagamente straniante, dell'immagine del gruppo, e catalizza nondimeno l'apprezzamento e l'affetto del pubblico. Andrea, come tutti sanno, è di Roccella Jonica, e il suo segno zodiacale è l'Aquario.
Anche tuo fratello Stefano è musicista: qualcuno in famiglia vi ha indirizzato verso gli studi musicali, o vi ha trasmesso la passione?
Ho iniziato a suonare la chitarra da piccolo, avevo 9 anni, ed è stato mio padre a insegnarmi le prime nozioni. Ancora non conosceva bene la musica, quindi ho proseguito gli studi con un maestro privato. Posso dire però che è stato grazie a lui che ho appreso la passione per la musica in generale, e in particolar modo per quella classica e cantautoriale italiana.
Prima di cominciare a suonarla, qual era i tuo rapporto con la musica popolare? Che musica ti piace, e cosa ascolti ora?
Il mio rapporto con la musica popolare è nato molto tardi. Essendo figlio degli anni '90, il contesto musicale che ha accompagnato la mia adolescenza si allontanava di gran lunga da quello in cui mi trovo a suonare in questo momento. Come qualunque ragazzo che suona la chitarra ed inizia ad esibirsi in pubblico, all'epoca ascoltavo molta musica rock americana e pop inglese; in più il mio background musicale era arricchito dagli interessi musicali trasmessimi da mio padre, e dalla passione per le composizioni per chitarra classica, che studiavo privatamente. In quegli anni inoltre la tarantella si trovava ancora ibernata allo stadio primordiale, ed esiliata nell’entroterra calabrese; le poche volte che veniva riproposta era sovraccarica di quel folclore di cui ci siamo sempre un po' vergognati.
Il mio primo incontro con la musica popolare avvenne quando conobbi Mimmo, rimanendo attratto però da sonorità che erano già rimaneggiate, sia a livello verbale che musicale. Prima come ascoltatore, e poi come musicista, fui coinvolto da quel fenomeno, che non era musica popolare vera e propria, ma quella che cantava lui.
La svolta fu quando, a cena da un amico assieme ad altre persone, vidi in dvd “The America Folk Blues Festival “, un festival itinerante, che nel 1962 portò in giro per l’Europa la musica Afroamericana con i suoi principali artisti delle generazioni più mature (Big Joe Williams, Sonny Terry ed altri loro coetanei). Stavano seduti su una panca con la chitarra, il banjo e l’armonica, suonavano un brano ciascuno, e mentre li guardavamo qualcuno disse: “Praticamente il blues è come la tarantella!”
In effetti, da quel che avevo visto, era così. Anche se cambiava il contesto in cui erano nate, tarantella e blues seguivano gli stessi principi, e avevano una struttura molto simile. Contemporaneamente a quell’episodio avevo già cominciato a suonare sia con Mimmo che con Cosimo, anche se in due gruppi diversi. E la mia curiosità, incentrata fino ad allora su questioni prettamente stilistiche, prese un’altra piega: iniziai ad ascoltare le registrazioni che fece Lomax negli anni '50 in Calabria, assieme a quelle raccolte da altri musicologi più recentemente, e continuo ancora adesso a leggere pubblicazioni che parlano del contesto sociale in cui questo genere musicale è cresciuto.
Dirti che musica mi piace è un po’ complesso. Diciamo innanzitutto che sono un fan sfegatato dei Beatles: per conoscere i miei gusti bisogna partire da questo particolare, ascolto con estrema attenzione perfino i provini dei loro brani, pubblicati nelle antologie, e sono molto informato sulla loro nascita, sull'evoluzione e sulla scissione del gruppo. Ho sempre ritenuto che Battisti fosse il loro equivalente italiano, e anche per lui nutro una forte ammirazione. Adoro la musica jazz, stimolato anche dal fatto che a Roccella da 26 anni si svolge un festival internazionale, sia gli standard di Duke Ellington, George Gershwin, Ella Fitzgerald, Nat King Cole, etc, sia il “free jazz” con tutte le sue contaminazioni. Ultimamente sto anche riscoprendo gli standard italiani (Natalino Otto, Rabagliati, etc). Per quanto riguarda quello che sto ascoltando in questo periodo, per evitare di dilungarmi troppo, posso dirti che nel mio lettore mp3 c’è l’ultimo album di Carmen Consoli, un album di Chet Baker, “Camera a sud” di Vinicio Capossela e il primo album di Jeff Buckley. E poi adoro Bach, e mi commuovo ogni volta che ascolto lo “Stabat Mater” di Pergolesi.
Mi ha sempre colpito, del tuo stile chitarristico, la capacità di essere essenziale, quasi minimale, eppure straordinariamente intenso ed espressivo: ci arrivi per sintesi e affinamento graduale? o è un approccio istintivo?
Sono sempre stato convinto che un musicista deve cercare di eliminare e non di aggiungere. Anche nel virtuosismo c’è un limite oltre il quale tutto diventa superfluo e viene smarrito l’obiettivo finale. Questo è un approccio che c’è sempre stato in me, ma che in passato risultava ancora poco maturo. Come si evolve l’ascolto, si perfeziona anche lo stile, e si sente la necessità di concentrarsi di più su determinate tecniche. E’ normale che adesso mi senta molto più preparato sulla musica popolare rispetto a qualche anno fa. E questo si riflette sul modo di eseguirla.
Sul palco il tuo atteggiamento imperturbabile e assorto è diventato un marchio di fabbrica: è frutto di una scelta stilistica, o un modo di concentrarsi sulla musica, o altro?
E’ il mio modo di essere, non è ricercato. Anche se può sembrare strano è il momento in cui sono più spontaneo, e come tendo ad “eliminare” sulla parte musicale, lo faccio anche stando in quel modo sul palco. Magari senza rendermene conto.
Come nascono gli arrangiamenti dei pezzi dei TP, e le varianti che sovente notiamo? E' un lavoro individuale o procedete condividendo le scelte tutti assieme?
Molti brani dei TaranProject sono il risultato di una vicenda iniziata dieci anni fa con i “Folia” proseguita con i “TaranKhan”, ripresa dai “SonuDivinu” e passata attraverso i “KarakoloFool”. In questa vicenda lunga e molto articolata sono intervenuti parecchi musicisti, alcuni dei quali non sono più presenti nel gruppo, che avevano creato gli arrangiamenti di diversi pezzi. Altri arrangiamenti fanno parte di tutti questi passaggi, all’interno dei quali siamo presenti molti di noi.
Il prodotto che esprime a pieno il lavoro dell'attuale formazione è “Hjuri di hjumari”, in quanto arrangiato e registrato da noi. I brani hanno sempre come punto di partenza un provino costituito da voce e chitarra sul quale poi si decide assieme tutto il resto.
A quale canzone dei TP sei particolarmente legato e perché?
Non c’è un brano al quale mi sento più legato, ma ce n’è uno che rappresenta nel mio approccio musicale il passaggio tra i TaranProject di prima e quelli di adesso. “Parrami di lu suli” è la prima canzone di “Hjuri di Hjumari” sulla quale ho iniziato a lavorare, e contiene i germogli del nuovo sound, un po’ più ricercato, tanto da risultare quasi più da ascolto che da ballo. Ha rappresentato anche il pretesto per mettermi in discussione, visto che appena ho ascoltato il provino ho pensato di voler prendere in mano uno strumento che non conoscevo, la mandola.
Qual è il tuo sogno (musicale) nel cassetto?
Non so se è un sogno nel cassetto, ma mi è sempre piaciuto pensare di poter suonare il “Concerto di Aranjuez” di Joaquin Rodrigo.
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bravissimo Andrea e complimenti all'autore dell'intervista!
RispondiEliminacomplimenti ad andrea e a fildiferro per la bella intervista. Le parole di andrea, comunque, per me confermano che ciò che siamo ora, nel nostro presente, è il risultato di un lungo percorso che comincia da molto lontano, fin dalla nostra infanzia, ed anche oltre.....
RispondiEliminaI gesti, le tecniche, le espressioni di un artista, che a noi sembrano semplici, quasi scontate, sono invece l'espressione di un suo proprio e particolare vissuto che, interagendo con la sua personalità, l'ha portato a fare certe scelte, a percorrere certi percorsi (nel campo della pittura contemporanea, ad esempio, le opere della pop-art,dell'informale, di tutto ciò che comunque non è figurativo, non sono nate così, dall'oggi al domani-spesso sento dire di una tale opera: " e che ci vuole a farle queste quattro macchie, le saprei fare pure io"- ma invece sono il risultato di un percorso di studio dell'artista che magari è durato una vita. Perciò onore al merito di andrea che in questa fase del suo percorso aritistico sta contribuendo allo sviluppo e alla valorizzazione della musica etnica calabrese.
Andrea è forse la coscienza del gruppo,lui sta in silenzio e fa parlare le dita, fa vibrare le corde di chitarre e mandole mettendole in risonanza con i cuori di chi ascolta e gioisce. Andrea fa sorridere i timpani di chi gode del suono e le gambe di chi balla scacciando il dolore e le angosce della vita. Andrea sta in silenzio, ma il popolo della taranta ama e rispetta i suoi silenzi,la sua calma, la sua pacatezza. Andrea disegna col suono delle corde, le e pizzica e le accarezza, le sue mani ci salutano ogni notte con la levità di un palpito che a volte cura la malinconia.
RispondiEliminaGiuseppe Cricrì