Potrebbe essere questo il motto con cui si annunciano i TaranProject in viaggio verso la capitale, per la presentazione nazionale del cd “Hjuri di hjumari” nei primi tre giorni di dicembre:
una spedizione che ha le sembianze di un vero e proprio attacco su più fronti, articolato in una raffica di appuntamenti variegati.
Si comincia giovedì mattina con la partecipazione alla trasmissione “I fatti vostri”, su Rai 2; al pomeriggio doppia incursione radiofonica, presso Città Futura e Radio Popolare, e di notte ancora sull'etere con "La notte di Radio Rai 1"; venerdì mattina seconda puntata a “I fatti vostri”, nel pomeriggio showcase alla Libreria Feltrinelli, e alla sera finalmente il concerto canonico, al Teatro Centrale.
Sabato a mezzodì ancora radio, a Roma l'Olgiata, e alla sera il gradito ritorno a Castelliri, in provincia di Frosinone, dove i TaranProject spopolarono già nell'agosto scorso.
Naturalmente il motto riguarda anche noi appassionati, che dai quattro angoli d'Italia, da Sud e da Nord, convergeremo su Roma, per festeggiare i nostri beniamini nel momento in cui finalmente offrono al mondo i loro meravigliosi Fiori di fiumare.
L'anello ritrovato
A più riprese, su queste pagine, abbiamo ricostruito percorsi e intrecci dei protagonisti di quella che potremmo definire la Saga di TaranKhan: una mappa ormai sostanzialmente decifrata, al centro della quale il progetto TaranKhan si staglia come il magico crocevia delle avventure artistiche di coloro che ancor oggi sono le creste più spumeggianti dell'Unda Jonica; fu in quel gruppo che si realizzò una prima perfetta sintesi musicale, e fu da lì che si dipartirono le successive personali parabole di Mimmo Cavallaro, Francesco Loccisano, Fabio Macagnino, Stefano Simonetta. Ma non va naturalmente trascurata, in questa nostra epopea, la cruciale irruzione, tra le schiere dei Cavalieri di Re Mimmo, di quel Parsifal, paladino del Sacro Graal della tradizione, che risponde al nome di Cosimo Papandrea, che sparigliò le carte con la sua prepotente e spettacolare vitalità.
Fu come sempre Fabio Macagnino, guidato dal suo fiuto rabdomante per le nuove e più ardite commistioni, a formare per primo un duo con Cosimo, e la storia dei SonuDivinu che ne conseguì è già stata ampiamente scandagliata.
E tuttavia, come può accadere all'archeologo che si aggiri per le zone di scavo, fortuna vuole che un refolo di vento provvidenziale scopra un'inattesa vestigia, una fugace traccia che si rivela preziosa per rinsaldare un altro nesso ancora.
E' successo così qualche settimana fa, con la comparsa su Facebook – ad opera di Fabio, of course – di un mucchietto di vecchie foto che lui ha riassunto sotto il titolo "SonuDivinu Story".
Non si tratta affatto, però, di una cronologia fotografica di quel gruppo, quanto piuttosto – almeno così a me pare – della testimonianza di due concerti che dovrebbero risalire alla preistoria dei SonuDivinu, quando ancora si chiamavano Atnarat nel 2005, o forse all'inizio dell'estate 2006, comunque in una fase decisamente ancora embrionale e fluida.
Ne è prova, decisiva come la datazione al Carbonio 14, la presenza straordinaria di Daniela Bonvento alla lira: per suo stesso racconto, Daniela si ritirò dalla scena in coincidenza con la nascita del figlio, quando si sciolsero i TaranKhan prima versione nel 2004, e solo in sporadiche occasioni partecipò a qualche serata, “qualcosa con Cosimo e con le nuove formazioni che nascevano, il progetto di Fabio di cui non ricordo il nome“.
Due quinti di TaranKhan e già tutti i carati dei SonuDivinu, è la lega pregiata di questo episodico anello di collegamento.
In questa foto - sorpresa!, ma mica poi tanto - vediamo un Mimmo Cavallaro in ciabatte, evidentemente cooptato sul palco all'impronto, formare una sorta di proto-KarakoloFool con Carmelo, Andrea, Fabio e Cosimo, qui non visibile ma sicuramente presente: lo si evince dall'immagine in cui vediamo i musicisti in alta uniforme di scena, cioè una coppola color crema che buffamente sfoggiano in tre.
Il luogo potrebbe essere – ma attendo conferme qualificate – il Lido Blue Dahlia di Marina di Gioiosa, il sacro tempio della musica locridea dove pressoché tutte queste vicende si sono dipanate, sotto il sapiente sguardo maieutico del patron Ruggero Malgeri.
Fu come sempre Fabio Macagnino, guidato dal suo fiuto rabdomante per le nuove e più ardite commistioni, a formare per primo un duo con Cosimo, e la storia dei SonuDivinu che ne conseguì è già stata ampiamente scandagliata.
E tuttavia, come può accadere all'archeologo che si aggiri per le zone di scavo, fortuna vuole che un refolo di vento provvidenziale scopra un'inattesa vestigia, una fugace traccia che si rivela preziosa per rinsaldare un altro nesso ancora.
E' successo così qualche settimana fa, con la comparsa su Facebook – ad opera di Fabio, of course – di un mucchietto di vecchie foto che lui ha riassunto sotto il titolo "SonuDivinu Story".
Non si tratta affatto, però, di una cronologia fotografica di quel gruppo, quanto piuttosto – almeno così a me pare – della testimonianza di due concerti che dovrebbero risalire alla preistoria dei SonuDivinu, quando ancora si chiamavano Atnarat nel 2005, o forse all'inizio dell'estate 2006, comunque in una fase decisamente ancora embrionale e fluida.
Ne è prova, decisiva come la datazione al Carbonio 14, la presenza straordinaria di Daniela Bonvento alla lira: per suo stesso racconto, Daniela si ritirò dalla scena in coincidenza con la nascita del figlio, quando si sciolsero i TaranKhan prima versione nel 2004, e solo in sporadiche occasioni partecipò a qualche serata, “qualcosa con Cosimo e con le nuove formazioni che nascevano, il progetto di Fabio di cui non ricordo il nome“.
Due quinti di TaranKhan e già tutti i carati dei SonuDivinu, è la lega pregiata di questo episodico anello di collegamento.
In questa foto - sorpresa!, ma mica poi tanto - vediamo un Mimmo Cavallaro in ciabatte, evidentemente cooptato sul palco all'impronto, formare una sorta di proto-KarakoloFool con Carmelo, Andrea, Fabio e Cosimo, qui non visibile ma sicuramente presente: lo si evince dall'immagine in cui vediamo i musicisti in alta uniforme di scena, cioè una coppola color crema che buffamente sfoggiano in tre.
Il luogo potrebbe essere – ma attendo conferme qualificate – il Lido Blue Dahlia di Marina di Gioiosa, il sacro tempio della musica locridea dove pressoché tutte queste vicende si sono dipanate, sotto il sapiente sguardo maieutico del patron Ruggero Malgeri.
Aloari, spalasari...
C'è voluto il contributo competente e dotto dell'amico Giuseppe C per diradare le nebbie che avvolgevano i nomi in questo verso: aloari, spini e spalasari – che mai saranno? Era chiaro dal contesto che si trattasse di essenze vegetali, ma quali precisamente? E gli immediatamente successivi cafuni e timpi? Mistero fitto.
Quel genere di mistero, peraltro, che diffonde un aura di fascino enigmatico attorno alla canzone, quella che ha dato il titolo al cd, “Hjuri di hjumari”.
Anche se, come ho già ricordato, è successo esattamente il contrario:
prima è stato pensato il titolo del cd, e solo in seguito questo brano di Mimmo, che a giugno 2010 si intitolava “Sapuri di pajisi”, è stato ribattezzato in Hjuri di hjumari.
Comunque sia, è un pezzo che merita appieno la fascia di capitano della squadra!
Si tratta di una sinfonia in miniatura, articolata in movimenti ben distinti che si combinano in equilibrio ardito ed armonioso: un'introduzione descrittiva che spazia tra immagini bucoliche, nostalgie e soprassalti d'emozione; un ritornello declamatorio e solenne, che sposa il catalogo botanico con l'urgenza dell'amore; un iroso anatema finale, affidato a Giovanna, che si stempera nella melodia prima squillante e poi evocativa della pipita d'oro di Gabriele.
La qualità speciale di questo brano sta nella studiata ricchezza delle sonorità, originali e così sapientemente abbinate – menzione d'onore per la chitarra battente di Francesco Loccisano e la mandola di Mimmo Epifani - e nelle inventive preziosità dell'arrangiamento, che lo rendono scintillante ed elegantissimo, un prestigioso gioiello da vetrina.
Il video (di Marimiketta, a Santa Caterina del Jonio l'estate scorsa) è girato nel classico stile di “ripresa danzante” che caratterizza molti dei nostri provetti registi, combattuti tra l'impegno a filmare e l'impulso irrefrenabile a ballare.
Della Madonna di lu Ritu abbiamo detto, e dunque passiamo al testo.
Ah, già... gli aloari e compagnia bella?
Leggete nei commenti la traduzione, con tutte le spiegazioni.
Hjuri di hjumari
Senti profumu di janestra
Quandu lapri ssa finestra,
Trasi lu suli ‘nta li casi,
Senti profumu di pajisi.
Terra chi tremi e fai fujiri,
Terra chi sempri dai suspiri,
Terra d’amuri mari e suli,
Terra di praja e di caluri.
Aloari, spini e spalasari,
Cafuni e timpi, hjiuri di hjiumari.
Vuci chi chjiama: “Venitindi amuri!
Ca sugnu sula chi zappu ‘nta si chjiani.”
Scrusci l’agghjiru ‘nta la frasca,
Mangia li mura di ruvetta.
Luci la luna e staci cittu,
Senti ‘na botta di scupetta.
Lucinu l’occhji ‘nta lu scuru,
Botta di lampu ‘nta lu cielu.
Scorci lu porcu ‘nta la zimba,
Mangi ricotta e ‘mbivi seru.
“E arzira fici liti
cu nu vecchjiu panararu.
Mi volìa na lira e menza
di ‘na cofana e nu panaru,
E non era fattu bonu,
era tuttu sculacchjiatu.
O Madonna di lu Ritu,
fa mu veni la hjiumara
Mu si leva lu cannitu,
nommu fannu chjiù panara.”
Aloari, spini e spalasari,
Cafuni e timpi, hjiuri di hjiumari.
Vuci chi chjiama: “Venitindi amuri!
Ca sugnu sula chi zappu ‘nta si chjiani.”
Quel genere di mistero, peraltro, che diffonde un aura di fascino enigmatico attorno alla canzone, quella che ha dato il titolo al cd, “Hjuri di hjumari”.
Anche se, come ho già ricordato, è successo esattamente il contrario:
prima è stato pensato il titolo del cd, e solo in seguito questo brano di Mimmo, che a giugno 2010 si intitolava “Sapuri di pajisi”, è stato ribattezzato in Hjuri di hjumari.
Comunque sia, è un pezzo che merita appieno la fascia di capitano della squadra!
Si tratta di una sinfonia in miniatura, articolata in movimenti ben distinti che si combinano in equilibrio ardito ed armonioso: un'introduzione descrittiva che spazia tra immagini bucoliche, nostalgie e soprassalti d'emozione; un ritornello declamatorio e solenne, che sposa il catalogo botanico con l'urgenza dell'amore; un iroso anatema finale, affidato a Giovanna, che si stempera nella melodia prima squillante e poi evocativa della pipita d'oro di Gabriele.
La qualità speciale di questo brano sta nella studiata ricchezza delle sonorità, originali e così sapientemente abbinate – menzione d'onore per la chitarra battente di Francesco Loccisano e la mandola di Mimmo Epifani - e nelle inventive preziosità dell'arrangiamento, che lo rendono scintillante ed elegantissimo, un prestigioso gioiello da vetrina.
Il video (di Marimiketta, a Santa Caterina del Jonio l'estate scorsa) è girato nel classico stile di “ripresa danzante” che caratterizza molti dei nostri provetti registi, combattuti tra l'impegno a filmare e l'impulso irrefrenabile a ballare.
Della Madonna di lu Ritu abbiamo detto, e dunque passiamo al testo.
Ah, già... gli aloari e compagnia bella?
Leggete nei commenti la traduzione, con tutte le spiegazioni.
Hjuri di hjumari
Senti profumu di janestra
Quandu lapri ssa finestra,
Trasi lu suli ‘nta li casi,
Senti profumu di pajisi.
Terra chi tremi e fai fujiri,
Terra chi sempri dai suspiri,
Terra d’amuri mari e suli,
Terra di praja e di caluri.
Aloari, spini e spalasari,
Cafuni e timpi, hjiuri di hjiumari.
Vuci chi chjiama: “Venitindi amuri!
Ca sugnu sula chi zappu ‘nta si chjiani.”
Scrusci l’agghjiru ‘nta la frasca,
Mangia li mura di ruvetta.
Luci la luna e staci cittu,
Senti ‘na botta di scupetta.
Lucinu l’occhji ‘nta lu scuru,
Botta di lampu ‘nta lu cielu.
Scorci lu porcu ‘nta la zimba,
Mangi ricotta e ‘mbivi seru.
“E arzira fici liti
cu nu vecchjiu panararu.
Mi volìa na lira e menza
di ‘na cofana e nu panaru,
E non era fattu bonu,
era tuttu sculacchjiatu.
O Madonna di lu Ritu,
fa mu veni la hjiumara
Mu si leva lu cannitu,
nommu fannu chjiù panara.”
Aloari, spini e spalasari,
Cafuni e timpi, hjiuri di hjiumari.
Vuci chi chjiama: “Venitindi amuri!
Ca sugnu sula chi zappu ‘nta si chjiani.”
Da Livitu fino al Petraci...
Testi, che passione!
E' stato per me un paziente apprendistato misurarmi con le parole delle canzoni dei TaranProject, imparare una lingua che non mi apparteneva, assorbirne poco a poco i modi espressivi, e la cultura di di cui è portatrice.
Uno sforzo premiato da piccole e grandi emozioni, come quando il testo improvvisamente si schiude alla comprensione per effetto di un'intuizione, o di un'informazione chiarificatrice; o quando rivela significati e riferimenti inattesi, che gettano una luce più vivida sul patrimonio di esperienze e pensieri che attraverso essi si comunica.
Per una serie di fortunate coincidenze, e grazie al contributo di ottimi compagni d'avventura delle mie ricerche, in questi ultimi tempi è successo spesso; merito anche delle numerose varianti locali che, da un paese all'altro, declinano piccole differenze in ciò che di voce in voce si è tramandato, o via via trascritto.
Per primo è stato l'amico Giuseppe M di Pellaro a segnalarmi un'alternativa, comune dalle sue parti, al verso “O Madonna di lu ritu...” presente nel brano Hjuri di hjumari: c'è una filastrocca popolare che dice “O Madonna du Livìtu, non mi cala la hjumara..”, e la notizia straordinaria è che il vicino paese di Oliveto fu realmente travolto da una tragica esondazione della fiumara nel 1953.
Ecco che l'invettiva di Giovanna assume tutt'altra minacciosità: non è una madonna generica, quella che viene invocata a danno dell'esoso panararo, ma la temibile Madonna du Livìtu, che ha ben dato prova di quali disastrosi cataclismi sia capace!
Appena due anni prima, nel 1951, lo straripamento del fiume Petraci, tra Gioia Tauro e Palmi, distrusse un ponte di pietra: ecco che il “ponti di Petraci”, che “fu la ruvina mia”, in una delle strofe della tarantella finale, diviene un circostanziato fatto di cronaca, e il lamento di chi, “manijando petra e caci”, si spezzò la schiena lavorando per sgomberare la frana suona drammaticamente vero.
Giuseppe C mi ha illuminato, a sua volta, a proposito della “fimmina cutrisa” e del suo “ballu tricchi-trà”, sempre nella tarantella finale: “I versi di Cosimo si riferiscono alla Cutrisa, la donna di Cutro: nel camminare con lo zoccolo al piede, forse parte integrante dell'antico costume popolare, nel ballo faceva quel particolare rumore, tricchi-trà, amplificato dall'impatto col suolo dei tacchi rinforzati con le "ttàcce", chiodi con la testa larga.”
Giuseppina, che pesca perle preziose dai suoi antichi sdruciti libriccini, mi ha segnalato una variante al testo di Pe'ttia, che recita “quandu la gugghja ammano vui pigghjati l'arcedu ch'è pe' l'aria vui pingiti”. Pingiti, anziché il “pungiti” di Cosimo! E l'immagine vagamente sadica della bella che inforca la gugliata con foga tale da infilzare gli uccelli di passaggio - che pure è in perfetto stile col piglio energico e incisivo di Cosimo – si trasforma nel morbido gesto con cui il movimento del braccio che porta l'ago dipinge nell'aria un armonioso volo d'uccello.
Dei fertili dubbi relativamente al Cangiu, o Ciangiu, in Vurrìa ho già detto di recente.
Ma lo scoop più clamoroso lo ha messo a segno il commento apparso qualche settimana fa in coda al post su Peppinella, che qui riporto:
“Sì, Peppinella è realmente esistita! Può essere identificata in “Peppineja d’a marina”, così chiamata perché abitava in una baracca di legno a ridosso della spiaggia di Roccella Jonica, proprio “sotto il ponte della ferrovia”, quello che era ed è conosciuto come “il ponte di Rossetti”. È vissuta a Roccella all’incirca fino agli anni cinquanta/sessanta e conduceva una vita alla “bocca di rosa”... “
E poi:
“In quegli anni viveva a Roccella un’altra donna che conduceva la stessa vita di Peppineja d’a marina, ed era Lisa a Ciopa." - la nostra Cioparella?
Così predono vita i personaggi, i luoghi, le storie di cui nelle canzoni si narra, li riconosciamo, e ritroviamo anche noi stessi nella ideale comunità che essi ricostruiscono con sempre maggior precisione e saldezza.
E' uno dei tanti modi in cui i TaranProject sanno farsi motore di aggregazione sociale, uno dei tanti segreti del nostro felice senso di appartenenza all'universo – fantastico, ma reale - che hanno saputo creare.
E' stato per me un paziente apprendistato misurarmi con le parole delle canzoni dei TaranProject, imparare una lingua che non mi apparteneva, assorbirne poco a poco i modi espressivi, e la cultura di di cui è portatrice.
Uno sforzo premiato da piccole e grandi emozioni, come quando il testo improvvisamente si schiude alla comprensione per effetto di un'intuizione, o di un'informazione chiarificatrice; o quando rivela significati e riferimenti inattesi, che gettano una luce più vivida sul patrimonio di esperienze e pensieri che attraverso essi si comunica.
Per una serie di fortunate coincidenze, e grazie al contributo di ottimi compagni d'avventura delle mie ricerche, in questi ultimi tempi è successo spesso; merito anche delle numerose varianti locali che, da un paese all'altro, declinano piccole differenze in ciò che di voce in voce si è tramandato, o via via trascritto.
Per primo è stato l'amico Giuseppe M di Pellaro a segnalarmi un'alternativa, comune dalle sue parti, al verso “O Madonna di lu ritu...” presente nel brano Hjuri di hjumari: c'è una filastrocca popolare che dice “O Madonna du Livìtu, non mi cala la hjumara..”, e la notizia straordinaria è che il vicino paese di Oliveto fu realmente travolto da una tragica esondazione della fiumara nel 1953.
Ecco che l'invettiva di Giovanna assume tutt'altra minacciosità: non è una madonna generica, quella che viene invocata a danno dell'esoso panararo, ma la temibile Madonna du Livìtu, che ha ben dato prova di quali disastrosi cataclismi sia capace!
Appena due anni prima, nel 1951, lo straripamento del fiume Petraci, tra Gioia Tauro e Palmi, distrusse un ponte di pietra: ecco che il “ponti di Petraci”, che “fu la ruvina mia”, in una delle strofe della tarantella finale, diviene un circostanziato fatto di cronaca, e il lamento di chi, “manijando petra e caci”, si spezzò la schiena lavorando per sgomberare la frana suona drammaticamente vero.
Giuseppe C mi ha illuminato, a sua volta, a proposito della “fimmina cutrisa” e del suo “ballu tricchi-trà”, sempre nella tarantella finale: “I versi di Cosimo si riferiscono alla Cutrisa, la donna di Cutro: nel camminare con lo zoccolo al piede, forse parte integrante dell'antico costume popolare, nel ballo faceva quel particolare rumore, tricchi-trà, amplificato dall'impatto col suolo dei tacchi rinforzati con le "ttàcce", chiodi con la testa larga.”
Giuseppina, che pesca perle preziose dai suoi antichi sdruciti libriccini, mi ha segnalato una variante al testo di Pe'ttia, che recita “quandu la gugghja ammano vui pigghjati l'arcedu ch'è pe' l'aria vui pingiti”. Pingiti, anziché il “pungiti” di Cosimo! E l'immagine vagamente sadica della bella che inforca la gugliata con foga tale da infilzare gli uccelli di passaggio - che pure è in perfetto stile col piglio energico e incisivo di Cosimo – si trasforma nel morbido gesto con cui il movimento del braccio che porta l'ago dipinge nell'aria un armonioso volo d'uccello.
Dei fertili dubbi relativamente al Cangiu, o Ciangiu, in Vurrìa ho già detto di recente.
Ma lo scoop più clamoroso lo ha messo a segno il commento apparso qualche settimana fa in coda al post su Peppinella, che qui riporto:
“Sì, Peppinella è realmente esistita! Può essere identificata in “Peppineja d’a marina”, così chiamata perché abitava in una baracca di legno a ridosso della spiaggia di Roccella Jonica, proprio “sotto il ponte della ferrovia”, quello che era ed è conosciuto come “il ponte di Rossetti”. È vissuta a Roccella all’incirca fino agli anni cinquanta/sessanta e conduceva una vita alla “bocca di rosa”... “
E poi:
“In quegli anni viveva a Roccella un’altra donna che conduceva la stessa vita di Peppineja d’a marina, ed era Lisa a Ciopa." - la nostra Cioparella?
Così predono vita i personaggi, i luoghi, le storie di cui nelle canzoni si narra, li riconosciamo, e ritroviamo anche noi stessi nella ideale comunità che essi ricostruiscono con sempre maggior precisione e saldezza.
E' uno dei tanti modi in cui i TaranProject sanno farsi motore di aggregazione sociale, uno dei tanti segreti del nostro felice senso di appartenenza all'universo – fantastico, ma reale - che hanno saputo creare.
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