In un lembo remoto d'Italia, la costa jonica calabrese attorno a Locri, è esploso nel 2009 un fenomeno musicale e culturale straordinario. Mimmo Cavallaro con i TaranProject ha tenuto in sei mesi oltre settanta concerti, conoscendo un successo via via sempre più travolgente, fino a suscitare un'autentica passione collettiva.
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Ma quantu vali, 'na gamba di massaru?

E' da oltre un anno che ci lasciamo immagare da questa canzone, e ancora – almeno è così per me – non ci riesce di dir le ragioni del suo fascino sempre nuovo.
Sicuramente la melodia è di presa immediata, con quell'incedere ondulante e seduttivo che è caratteristico di tanti brani di Mimmo; sicuramente il ritornello è irresistibile e luminoso, ha una rotondità levigata che invoglia a giocarci senza posa, e la frase musicale della lira ha una deliziosa spensieratezza malinconica; come sempre, il canto è avvolgente e conquistatore, e in unisono con Giovanna diviene puro piacere dei sensi. Ma tutto questo non basta. C'è qualcosa che cattura, avvince, e poi sfugge in mille direzioni, spingendoci a seguire il filo di impreviste trame emotive, a esplorare inediti scorci prospettici.
Questa, potremmo dire, è la prima canzone in 3D.
Ciò dipende ovviamente anche dal testo, un intreccio inestricabile di desideri, capricci, pensieri malvagi, che guizzano come pesciolini argentati nelle mille risonanze del timbro vocale di Mimmo.

Al centro della scena è il Massaro, cioè l'affittuario, o amministratore, della masseria: figura ibrida di suo, ben distinto dai contadini e pastori nella raffigurazione sociale, e però ai margini della casta dei nobili e proprietari, collocato in un crocevia di aspirazioni e cupidigie di cui egli è al tempo stesso oggetto e attore.
Il testo è fratturato in due ante speculari: nella prima è il massaro a ingolosire la bella promettendole beni materiali e agiatezze, che lei farebbe bene ad anteporre all'amore per il “bruttu craparu”; nella seconda è la moglie del marinaio a invocare addirittura la complicità di San Nicola per la sua macchinazione omicida, per poter così coronare il sogno di un favoloso matrimonio d'interesse col massaro.
Nel mezzo una dedica amorosa della più pura e alata poesia, che chiama gli inscalfibili Sole e Luna a propri araldi, e che sembra non c'entrare per nulla con gli umori impazienti e gretti delle altre strofe. Invece ci sta a meraviglia, e proprio perché crea quei forti contrasti in controluce che danno volume e realismo ai personaggi e ai loro sentimenti.
E a ben guardare rivela, negli ultimi versi, tutta la potenza dell'ambiguità: è il Sole cocente a provocare l'abbaglio della mente, a generare quella frase dolce come il miele - Se 'on bìju a tia 'on bìju nenti – che subito ci è parsa la quintessenza dell'amore, ma che in filigrana descrive anche la ragione profonda degli istinti egoisti e malevoli: l'accecamento, l'incapacità di vedere l'altro da sé.
Impossibile, in questa narrazione, scindere il bene dal male: è un rompicapo sentimentale che non si lascia decifrare del tutto, complicato come lo è la vita.
Bello e inesauribile per questo.


U MASSARU

Se voi mangiari pane de maise
Pigghjate nu massaru ohi donna bella!
Nun ti prejari du carzuni tisu,
Chi ti porta lu pani in tuvagliella.
De mille amanti tu tenive pisca,
E ti pigghjiasti nu bruttu craparu.

Lu mari, lu mari, lu mari è fundu,
L’amuri mia a tia ti dugnu.
La luna, la luna esti lucenti,
L’amuri mia a tia pe sempri.
Lu suli, lu suli esti cocenti,
Si 'on biju a tia 'on biju nenti.

T’innamurasti d'a ricotta frisca,
Va vidi a lu granaru si c’è 'ranu.

Parti lu marinaru e va pe mari,
Dassa menza cinchina alla mugghjieri:
Mugghjieri mia accattancindi pani
‘nzicchè ‘nci vaju e vegnu di Missina.

Lu mari, lu mari, lu mari è fundu,
L’amuri mia a tia ti dugnu.
La luna, la luna esti lucenti,
L’amuri mia a tia pe sempri.
Lu suli, lu suli esti cocenti,
Si 'on biju a tia 'on biju nenti.

Santu Nicola meu fallu annigari,
Ca non mi curu ca restu cattiva,
Ca quantu vali 'na gamba di massaru
Non vali na barca cu' triccentu rimi.

Lu mari, lu mari, lu mari è fundu,
L’amuri mia a tia ti dugnu.
La luna, la luna esti lucenti,
L’amuri mia a tia pe sempri.
Lu suli, lu suli esti cocenti,
Si 'on biju a tia 'on biju nenti.

(Nei commenti la traduzione in italiano)

5 commenti:

  1. Il Massaro

    Se vuoi mangiare pane di mais
    pigliati un massaro, o donna bella!
    Non ti pregiare del calzone teso
    che ti porta il pane in tovaglietta.
    Potevi pescare tra mille amanti,
    e ti pigliasti un brutto capraro.

    Il mare, il mare, il mare è fondo,
    l'amore mio lo dono a te.
    La luna, la luna è lucente,
    l'amore mio per sempre a te.
    Il sole, il sole è cocente,
    se non vedo te non vedo niente.

    T'innamorasti della ricotta fresca,
    va a vedere nel granaio se c'è grano.

    Parte il marinaio e va per mare,
    lascia mezza cinquina alla moglie:
    moglie mia compratici il pane
    finché vado e torno da Messina.

    San Nicola mio, fallo annegare
    che non m'importa se resto vedova,
    ché quanto vale una gamba di massaro
    non vale una barca con trecento remi.

    Il mare, il mare, il mare è fondo,
    l'amore mio lo dono a te.
    La luna, la luna è lucente,
    l'amore mio per sempre a te.
    Il sole, il sole è cocente,
    se non vedo te non vedo niente.

    Nota: per molti mesi ho ignorato l'esatta traduzione del termine dialettale "cattiva", e mi pareva straordinariamente espressiva la cruda consapevolezza di questa descrizione di sé data dalla moglie del marinaio; ora so che vuol dire "vedova", ma resto ugualmente affezionato a questa ulteriore duplicità di significati.

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    1. Sarebbe bastato conoscere e leggere "Antichi mestieri di Calabria" vol.1 - pag.18/19 della Collana Calabra Economica, ideata da Sergio Dragone e Massimo TIgana Sava ed edita da C.B.C. Edizioni - 1998 - o forse, semplicemente, chiedere a Mimmo, dato che il testo è stato parzialmente copiato da questo libro ... Ad Majora!

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    2. Grazie della segnalazione! Non trattandosi propriamente di un best seller, sarebbe interessante se tu potessi riportare il testo originale, per un confronto con la rielaborazione di Mimmo...

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  2. Dopo aver voluttuosamente subito la speciale fascinazione, che l’ascolto del brano sa regalare a chiunque si accosti a recepirne i contenuti, sia quelli melodici che quelli letterari, presenti nel testo, devo riconoscere che la stupenda recensione prodotta nel blog dal formidabile spirito interpretativo del nostro Fildiferro non è meno carica di armonia ed incanto. E’ mirabilmente dipanato il filo policromo dell’arabesco musicale, è splendidamente svelato l’arcano tridimensionale della canzone in oggetto, è finalmente godibile l’affresco narrativo, che l’estro e il talento di Mimmo hanno saputo realizzare, per la gioia dei nostri timpani, per il godimento dei nostri cuori, per l’appagamento della nostra anima. Devo ancora aggiungere che ho percepito, nei contenuti di questa canzone, scorci in chiaro scuro, atmosfere inestricabilmente inconfessabili, allusive, quasi torbide, arricchite da percezioni, che ingenerano nell’ascoltatore fantasie inequivocabilmente seduttive. Questa canzone di rara bellezza mi regala suggestioni che solo in altre infrequenti circostanze ho saputo ritrovare, penso a Dolcenera di de Andrè e non aggiungo altro.
    Giuseppe Cricrì

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  3. Ulteriore nota: merita una spiegazione il "carzuni tisu", che si riferisce all'abito attillato che solevano indossare i popolani, in contrapposizione al vestito di taglio sartoriale dei ricchi; ma è evidente anche l'allusione erotica, che si riverbera magistralmente nel "pani in tuvagliella" che lievita morbido dentro il panno.

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