--- per chi ama la musica di Mimmo e pensa che tutto il mondo debba conoscerla --- per chi ha voglia di scoprire un artista eccezionale - the next Big Thing!
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Di nuovo Roma!
Per la settima volta
i TaranProject a Roma,
giovedì 21 alle ore 21 al Parco dell'Accademia all'EUR, nell'ambito della rassegna Nonsolomameli.
L'indomani, venerdì 22, ideale seguito di latinità con un altro concerto in un luogo speciale:
presso gli scavi archeologici della Villa Romana di Casignana, in contrada Palazzi, lungo la statale 106 a nord dell'abitato di Bianco, si rinnoverà il magico incontro dei TaranProject con i siti della classicità, come avvenne lo scorso anno al tempio Marasà di Locri.
Gli splendidi mosaici di Casignana, restaurati di recente, meritano assolutamente una visita prima del concerto!
Diario lussemburghese d'un chitarrista
Un documento d'eccezione.
A maggio i TaranProject sono stati in Lussemburgo per un concerto. Un'allegra spedizione, cui però mancò il sostegno dei fan al seguito dall'Italia: troppo lontana la meta, niente voli low-cost, nessun ponte a cui abbinare un giorno di ferie...
Da qui l'idea di chiederne un resoconto a chi c'era per forza, cioè i protagonisti dell'evento. Andrea Simonetta si è prestato volentieri all'incombenza, e l'ha espletata da par suo.
Quel che ne è scaturito non assomiglia tanto ad una cronaca del concerto, quanto piuttosto al vero e proprio diario di un'esperienza che, come capita sempre con i TaranProject, non si è limitata all'ambito artistico, ma ha coinvolto emozioni, relazioni, riflessioni.
Da leggere come un racconto breve, o meglio ancora da ascoltare come un nuovo brano musicale, che reca lo stile inconfondibile di Andrea: diverse corde vengono fatte risuonare, alcune delicatamente sfiorate, altre con tocco più netto, con annotazioni di volta in volta estremamente accurate oppure apparentemente di striscio, ma senza mai perder di vista la composizione di un'armonia che prende forma con elegante naturalezza. Con un finale lievemente enigmatico, che riannoda e compone in figura fili preziosi ch'erano stati sparsi qua e là, quasi distrattamente, nelle righe precedenti.
Ecco il testo scritto da Andrea.
Cerco sempre di sedermi accanto al finestrino, quando viaggio in aereo.
Sia per guardare il panorama dall’alto e sia perché, a differenza di quando sono in macchina o sul furgone, posso appoggiare la testa senza sbatterla in caso di buche o giunti stradali.
Purtroppo la mattina della nostra partenza quel posto privilegiato l’ho dovuto cedere alla mia chitarra: non ho mai capito come mai uno strumento musicale susciti tra le hostess e gli stuart così tanta tensione e inquietudine da scombinare tutto l'aereo.
Assieme a noi, durante il viaggio, c’era una parte del comitato festa, perché il concerto era in occasione della ricorrenza del Santo patrono di Mammola, San Nicodemo. Saremmo stati accolti, al nostro arrivo, da un gruppo festoso di mammolesi emigrati all’estero.
Si sente sempre parlare molto di quella realtà, si conoscono tutte le sfaccettature della loro quotidianità, tanto da aver la presunzione di non attendersi sorprese nel venire in contatto con il microcosmo calabrese che queste persone hanno ricostruito.
La prerogativa che caratterizza il nostro concetto di ospitalità non poteva certamente essere smentita: abbiamo mangiato fin oltre la sazietà. E il nostro soggiorno a Soleuvre è iniziato proprio nella pizzeria di un calabrese, che aveva aperto alle 17 appositamente per noi.
La maggior parte di loro lavora nella ristorazione o in fabbrica, e nei vari spostamenti in macchina abbiamo avuto modo di conoscere le loro storie. Non c’è un'unica fascia d’età che li caratterizza, ma nessuno di loro ha un titolo di studio; hanno messo in gioco tutto quello che avevano nel momento in cui sono partiti per la prima volta - chi, all’epoca, con il treno, e chi, più recentemente, in aereo - e ce l’hanno fatta.
Il Lussemburgo, poi, è un posto strano, quasi surreale: una ghiandola schiacciata da tre nazioni, riempita di pendolari che ci lavorano ogni giorno e di italiani emigrati che parlano tre lingue, girano su automobili che in Italia non tutti possono permettersi, e vivono in villette che ricordano un po' Disneyland.
Quattro giorni e un solo concerto, per noi una vera e propria vacanza: la comitiva mammolese che si mobilita ogni giorno per portarci in giro a visitare la città e a mangiare, l’intera giornata a disposizione per fare i turisti senza la fretta di dover tornare per il soundcheck, il piacere di non doverci svegliare presto la mattina seguente per ripartire.
Quel che mi ha principalmente colpito dell’intera esperienza è stato il sentimento nostalgico che impronta il culto del santo. La distanza da tutto il contorno che solitamente fa da presupposto per la celebrazione del rituale lo priva di alcuni aspetti caratterizzanti, quali la processione, la piazza dove tutto si consuma, i fuochi d’artificio. Con i tre colpi finali che annunciano la fine della festa.
La sala dove si è tenuto il concerto era una palestra, con tanto di cucina, bancone bar e bagni, all’interno della quale vengono spesso ospitati eventi del genere. Per tutto il concerto, svoltosi durante la cena, sul bordo frontale del palco c’era il mezzo busto di San Nicodemo, con tanto di aureola in metallo.
Il concerto, pur con qualche carenza da parte del service audio-luci, si è svolto alla solita maniera, seguendo la scaletta del tour. In genere, nelle trasferte che presuppongono il viaggio in aereo, non riusciamo a portare tutti gli strumenti, e quindi qualche brano che richiede la presenza della seconda lira o della mandola viene depennato. I minuti mancanti sono stati colmati dall’ospite della serata: tra gli organizzatori qualcuno si è dilettato nella composizione di un brano dedicato al santo, e si è esibito accompagnato da una parte dei TaranProject e da Francesco Scarfò alla chitarra. Qualche richiesta fuori programma ha poi completato lo spettacolo.
L’atmosfera non era quella che accompagna di solito i nostri concerti, sommersi dai fan esultanti. Dopotutto stiamo parlando di una sala dove il pubblico, per metà non italiano, era seduto a cenare e ad ascoltare un gruppo che non conosceva, e che propone una musica magari diversa da quella che si aspettava di sentire. Ma poiché la peculiarità dei TaranProject è di trasmettere un messaggio diretto, col quale l’impulso al ballo diventa inequivocabile e istintivo, il consenso di gran parte della sala non è certo mancato.
Di questa trasferta mi è rimasto un segno forte sotto l’aspetto umano, e la particolare impressione nel vedere una piccola comunità che si ritaglia, in un’altra nazione, un po’ di spazio per incollare un pezzettino di Calabria, sia pur lontano da quella sontuosità popolare che le circostanze ambientali non permettono.
Forse per una forma di superstizione, o un atteggiamento mistico nei confronti di quello che accade intorno a me, noto sempre dei dettagli inaspettati, che assumono il carattere di messaggio subliminale.
Durante il volo di ritorno, che avvenne di sera, seduto finalmente accanto al finestrino, vidi le luci di un paese; non ho idea di dove si trovasse, ma si capiva dalle dimensioni che era di provincia.
Da quella lontana costellazione di luci partirono all’improvviso delle nuvolette di fumo, che s’illuminavano a intermittenza. Anche Giovanna, che era seduta dietro di me, se ne accorse. Erano fuochi d’artificio, e noi li stavamo vedendo dall’alto. Non mi era mai capitato prima, o non me n'ero mai accorto.
Mi piace pensare che, se era rimasta una lacuna rituale da colmare, i tre colpi finali che noi vedevamo dall’aereo sancivano, in maniera solenne, la conclusione della festa. Anche se eravamo solo noi a vederli.
A maggio i TaranProject sono stati in Lussemburgo per un concerto. Un'allegra spedizione, cui però mancò il sostegno dei fan al seguito dall'Italia: troppo lontana la meta, niente voli low-cost, nessun ponte a cui abbinare un giorno di ferie...
Da qui l'idea di chiederne un resoconto a chi c'era per forza, cioè i protagonisti dell'evento. Andrea Simonetta si è prestato volentieri all'incombenza, e l'ha espletata da par suo.
Quel che ne è scaturito non assomiglia tanto ad una cronaca del concerto, quanto piuttosto al vero e proprio diario di un'esperienza che, come capita sempre con i TaranProject, non si è limitata all'ambito artistico, ma ha coinvolto emozioni, relazioni, riflessioni.
Da leggere come un racconto breve, o meglio ancora da ascoltare come un nuovo brano musicale, che reca lo stile inconfondibile di Andrea: diverse corde vengono fatte risuonare, alcune delicatamente sfiorate, altre con tocco più netto, con annotazioni di volta in volta estremamente accurate oppure apparentemente di striscio, ma senza mai perder di vista la composizione di un'armonia che prende forma con elegante naturalezza. Con un finale lievemente enigmatico, che riannoda e compone in figura fili preziosi ch'erano stati sparsi qua e là, quasi distrattamente, nelle righe precedenti.
Ecco il testo scritto da Andrea.
Cerco sempre di sedermi accanto al finestrino, quando viaggio in aereo.
Sia per guardare il panorama dall’alto e sia perché, a differenza di quando sono in macchina o sul furgone, posso appoggiare la testa senza sbatterla in caso di buche o giunti stradali.
Purtroppo la mattina della nostra partenza quel posto privilegiato l’ho dovuto cedere alla mia chitarra: non ho mai capito come mai uno strumento musicale susciti tra le hostess e gli stuart così tanta tensione e inquietudine da scombinare tutto l'aereo.
Assieme a noi, durante il viaggio, c’era una parte del comitato festa, perché il concerto era in occasione della ricorrenza del Santo patrono di Mammola, San Nicodemo. Saremmo stati accolti, al nostro arrivo, da un gruppo festoso di mammolesi emigrati all’estero.
Si sente sempre parlare molto di quella realtà, si conoscono tutte le sfaccettature della loro quotidianità, tanto da aver la presunzione di non attendersi sorprese nel venire in contatto con il microcosmo calabrese che queste persone hanno ricostruito.
La prerogativa che caratterizza il nostro concetto di ospitalità non poteva certamente essere smentita: abbiamo mangiato fin oltre la sazietà. E il nostro soggiorno a Soleuvre è iniziato proprio nella pizzeria di un calabrese, che aveva aperto alle 17 appositamente per noi.
La maggior parte di loro lavora nella ristorazione o in fabbrica, e nei vari spostamenti in macchina abbiamo avuto modo di conoscere le loro storie. Non c’è un'unica fascia d’età che li caratterizza, ma nessuno di loro ha un titolo di studio; hanno messo in gioco tutto quello che avevano nel momento in cui sono partiti per la prima volta - chi, all’epoca, con il treno, e chi, più recentemente, in aereo - e ce l’hanno fatta.
Il Lussemburgo, poi, è un posto strano, quasi surreale: una ghiandola schiacciata da tre nazioni, riempita di pendolari che ci lavorano ogni giorno e di italiani emigrati che parlano tre lingue, girano su automobili che in Italia non tutti possono permettersi, e vivono in villette che ricordano un po' Disneyland.
Quattro giorni e un solo concerto, per noi una vera e propria vacanza: la comitiva mammolese che si mobilita ogni giorno per portarci in giro a visitare la città e a mangiare, l’intera giornata a disposizione per fare i turisti senza la fretta di dover tornare per il soundcheck, il piacere di non doverci svegliare presto la mattina seguente per ripartire.
Quel che mi ha principalmente colpito dell’intera esperienza è stato il sentimento nostalgico che impronta il culto del santo. La distanza da tutto il contorno che solitamente fa da presupposto per la celebrazione del rituale lo priva di alcuni aspetti caratterizzanti, quali la processione, la piazza dove tutto si consuma, i fuochi d’artificio. Con i tre colpi finali che annunciano la fine della festa.
La sala dove si è tenuto il concerto era una palestra, con tanto di cucina, bancone bar e bagni, all’interno della quale vengono spesso ospitati eventi del genere. Per tutto il concerto, svoltosi durante la cena, sul bordo frontale del palco c’era il mezzo busto di San Nicodemo, con tanto di aureola in metallo.
Il concerto, pur con qualche carenza da parte del service audio-luci, si è svolto alla solita maniera, seguendo la scaletta del tour. In genere, nelle trasferte che presuppongono il viaggio in aereo, non riusciamo a portare tutti gli strumenti, e quindi qualche brano che richiede la presenza della seconda lira o della mandola viene depennato. I minuti mancanti sono stati colmati dall’ospite della serata: tra gli organizzatori qualcuno si è dilettato nella composizione di un brano dedicato al santo, e si è esibito accompagnato da una parte dei TaranProject e da Francesco Scarfò alla chitarra. Qualche richiesta fuori programma ha poi completato lo spettacolo.
L’atmosfera non era quella che accompagna di solito i nostri concerti, sommersi dai fan esultanti. Dopotutto stiamo parlando di una sala dove il pubblico, per metà non italiano, era seduto a cenare e ad ascoltare un gruppo che non conosceva, e che propone una musica magari diversa da quella che si aspettava di sentire. Ma poiché la peculiarità dei TaranProject è di trasmettere un messaggio diretto, col quale l’impulso al ballo diventa inequivocabile e istintivo, il consenso di gran parte della sala non è certo mancato.
Di questa trasferta mi è rimasto un segno forte sotto l’aspetto umano, e la particolare impressione nel vedere una piccola comunità che si ritaglia, in un’altra nazione, un po’ di spazio per incollare un pezzettino di Calabria, sia pur lontano da quella sontuosità popolare che le circostanze ambientali non permettono.
Forse per una forma di superstizione, o un atteggiamento mistico nei confronti di quello che accade intorno a me, noto sempre dei dettagli inaspettati, che assumono il carattere di messaggio subliminale.
Durante il volo di ritorno, che avvenne di sera, seduto finalmente accanto al finestrino, vidi le luci di un paese; non ho idea di dove si trovasse, ma si capiva dalle dimensioni che era di provincia.
Da quella lontana costellazione di luci partirono all’improvviso delle nuvolette di fumo, che s’illuminavano a intermittenza. Anche Giovanna, che era seduta dietro di me, se ne accorse. Erano fuochi d’artificio, e noi li stavamo vedendo dall’alto. Non mi era mai capitato prima, o non me n'ero mai accorto.
Mi piace pensare che, se era rimasta una lacuna rituale da colmare, i tre colpi finali che noi vedevamo dall’aereo sancivano, in maniera solenne, la conclusione della festa. Anche se eravamo solo noi a vederli.
L'Eredità di TaranKhan
A completare l'ampia retrospettiva recentemente dedicata ai TaranKhan, ritorniamo infine ai giorni nostri.
Se il 2003 fu senza dubbio l'annus mirabilis del gruppo, con le migliori performances e due dischi pronti per esser pubblicati, il 2011 si sta rivelando l'anno della rivincita. Otto anni fa il gruppo era al suo apice creativo, con tutte le carte in regola per intraprendere un'orbita di ancor più vasta visibilità; ma per le vicende che abbiamo ricostruito quel che ne seguì fu invece la fine del progetto.
Oggi, con l'uscita dei cd di Fabio e Stefano, dopo quelli di Francesco e Mimmo, è finalmente giunto il momento della consacrazione per questo nucleo di musicisti, ciascuno a suo modo straordinario. Uniti in una fase decisiva della loro formazione, si sono poi incamminati su strade individuali, senza tuttavia mai perdersi di vista, continuando fecondi rapporti di amicizia e collaborazione; ciascuno facendo crescere secondo la propria sensibilità quel germoglio nato nei loro anni assieme, e portandolo a rigogliose maturazioni, apparentemente difformi l'una dall'altra, eppure tutte legate a condividere una matrice comune.
Che è il dialogo incessante con la tradizione musicale della loro terra:
per Mimmo Cavallaro un interrogare il passato che lo propone come l'interlocutore ed erede più naturale di una musica antica ma di nuovo attuale, nell'impulso di rinascita che lui ha saputo donarle;
per Fabio Macagnino lo strenuo ragionare di chi ha voluto riappropriarsi di una lingua madre che non era più la sua, e che una volta riconquistata diventa potente e originale mezzo espressivo;
per Francesco Loccisano l'intimo conversare che anima la dimensione tattile e corporea del contatto con la sua chitarra battente, che lui ha nobilitata dal mero accompagnamento a strepitoso strumento solista, dandole una nuova voce;
per Stefano Simonetta un intrepido e rabbioso corpo a corpo, a fior di pelle, ingaggiato con il dialetto e le tradizioni, musicali e sociali, che lo ha portato a spalancarci squarci vertiginosi e illuminanti di consapevolezza.
Quattro modi diversi di ampliare gli orizzonti della musica popolare della Locride, di rivolgerla verso prospettive impensate, di renderla perentoriamente viva e presente, di porla al centro di percorsi esistenziali: quelli degli artisti in prima persona, ma un po' anche i nostri di ascoltatori, affascinati e avvinti dalla passione.
Se il 2003 fu senza dubbio l'annus mirabilis del gruppo, con le migliori performances e due dischi pronti per esser pubblicati, il 2011 si sta rivelando l'anno della rivincita. Otto anni fa il gruppo era al suo apice creativo, con tutte le carte in regola per intraprendere un'orbita di ancor più vasta visibilità; ma per le vicende che abbiamo ricostruito quel che ne seguì fu invece la fine del progetto.
Oggi, con l'uscita dei cd di Fabio e Stefano, dopo quelli di Francesco e Mimmo, è finalmente giunto il momento della consacrazione per questo nucleo di musicisti, ciascuno a suo modo straordinario. Uniti in una fase decisiva della loro formazione, si sono poi incamminati su strade individuali, senza tuttavia mai perdersi di vista, continuando fecondi rapporti di amicizia e collaborazione; ciascuno facendo crescere secondo la propria sensibilità quel germoglio nato nei loro anni assieme, e portandolo a rigogliose maturazioni, apparentemente difformi l'una dall'altra, eppure tutte legate a condividere una matrice comune.
Che è il dialogo incessante con la tradizione musicale della loro terra:
per Mimmo Cavallaro un interrogare il passato che lo propone come l'interlocutore ed erede più naturale di una musica antica ma di nuovo attuale, nell'impulso di rinascita che lui ha saputo donarle;
per Fabio Macagnino lo strenuo ragionare di chi ha voluto riappropriarsi di una lingua madre che non era più la sua, e che una volta riconquistata diventa potente e originale mezzo espressivo;
per Francesco Loccisano l'intimo conversare che anima la dimensione tattile e corporea del contatto con la sua chitarra battente, che lui ha nobilitata dal mero accompagnamento a strepitoso strumento solista, dandole una nuova voce;
per Stefano Simonetta un intrepido e rabbioso corpo a corpo, a fior di pelle, ingaggiato con il dialetto e le tradizioni, musicali e sociali, che lo ha portato a spalancarci squarci vertiginosi e illuminanti di consapevolezza.
Quattro modi diversi di ampliare gli orizzonti della musica popolare della Locride, di rivolgerla verso prospettive impensate, di renderla perentoriamente viva e presente, di porla al centro di percorsi esistenziali: quelli degli artisti in prima persona, ma un po' anche i nostri di ascoltatori, affascinati e avvinti dalla passione.
Scialaruga
La parabola artistica di Fabio Macagnino iniziò a prender forma quando, adolescente, arrivò a Caulonia dalla natìa Germania: si ritrovò in una terra straniera, innervata però delle radici del suo passato familiare; l'apprendimento del dialetto, indispensabile strumento comunicativo, divenne subito anche la scelta caparbia di un mezzo espressivo che per lui era al tempo stesso ceppo ancestrale e acquisizione cosciente.
Ne conseguirono, in modo naturale, la riscoperta di un patrimonio musicale allora trascurato dai più, l'incontro con Mimmo Cavallaro e tutto quel che ne seguì; e oggi la messa a fuoco di un linguaggio e uno stile personalissimi, che conservano la ricchezza e il fascino della memoria ma si aprono a una feconda dialettica con le musiche trasversali del mondo globale.
C'era già stato nel 2007 un cd a nome Scialaruga, la colonna sonora del film “Liberarsi”: in sé pregevole, ma legato allo specifico progetto, cui parteciparono Francesco Loccisano e i fratelli Scarfò. Non a caso il cd uscito quest'anno si intitola semplicemente Scialaruga, come si conviene ad un opera prima; e questa lo è a tutti gli effetti.
Fabio è un sognatore.
Ne ha le migliori qualità: potenza ideativa, ardore, libertà d'immaginazione, fantasia. Molte delle avventure artistiche di cui si è raccontato su queste pagine sono state rese possibili dal coraggio, dalla capacità progettuale, dalla determinazione con cui Fabio ha saputo tradurre in realtà alcuni dei suoi sogni.
Anche il cd “Scaialaruga” è uno scrigno ricolmo di sogni.
La chiave per aprirlo ce la fornisce il primo brano, la danza della Zafrata: ci vuole l'occhio attonito a 360 gradi della lucertola per contemplare con lo sguardo l'universo di suggestioni cui ci accostiamo; ci vogliono, della zafrata, l'immobilismo corazzato e il guizzo fulmineo, ci vuole la Trance di cui dice il titolo, per intraprendere questo viaggio costellato di oniriche visioni. Che non a caso prosegue con una discesa agli inferi, sospesa tra riferimenti letterari e umanissime passioni, nella successiva 'Npernu.
Per questo disco vien voglia di usare una formula che ricorre ciclicamente, con l'andar delle mode, da almeno cinquant'anni: musica psichedelica.
Ma non nel senso didascalico e riduttivo dell'orgia di luci e colori; basti osservare la sobrietà della veste grafica del cd, tra l'ocra e il seppia, con il ripetersi di foto in cui Fabio e Vincenzo Oppedisano sonnecchiano inerti, proprio come fossero rapiti da sogni, allucinazioni, fantasmagorie, che solo addentrandoci nell'ascolto potremo pian piano decifrare.
Le atmosfere si susseguono in turbinìo: dal riflessivo, al frenetico, all'assorto, al circense, fino all'orgoglio della bellissima Esperia, con la voce fenomenale di Mico Corapi.
Poprio in questo brano c'è una strofa che definisce perfettamente la poetica di Fabio:
“Ma 'ncennu dui cosi chi
mi dannu penzeri assai,
li cosi chi cangianu sempi
e chidi chi non cangianu mai...”
Il bianco e il nero, la rigidità di ciò che si vuole immutabile e l'indistinto di quel che muta senza scopo e ragione: nel mezzo c'è il firmamento di tutte le sfumature e mescolanze di colore, quelle a cui Fabio rivolge la sua attenzione, inseguendo ogni immagine, senza timore di perdersi. Perché è guidato da quel che Kubrick, nel suo film “Shining”, chiamò la luccicanza: un misto di lungimiranza, sensibilità, istinto e consapevolezza, che gli consente di far sempre la mossa giusta.
Il Silenziu finale, quando sogni e visioni si vanno smorzando, ci riaccompagna non verso il risveglio, ma dentro un sonno più profondo, che avvolge e custodisce ogni apparizione in un alone favoloso; ci riconsegna al sopore della zafrata, al suo occhio sbarrato, imperturbabile alle cose terrene perché appagato delle meraviglie di cui, per la durata del cd, si è nutrito.
Ne conseguirono, in modo naturale, la riscoperta di un patrimonio musicale allora trascurato dai più, l'incontro con Mimmo Cavallaro e tutto quel che ne seguì; e oggi la messa a fuoco di un linguaggio e uno stile personalissimi, che conservano la ricchezza e il fascino della memoria ma si aprono a una feconda dialettica con le musiche trasversali del mondo globale.
C'era già stato nel 2007 un cd a nome Scialaruga, la colonna sonora del film “Liberarsi”: in sé pregevole, ma legato allo specifico progetto, cui parteciparono Francesco Loccisano e i fratelli Scarfò. Non a caso il cd uscito quest'anno si intitola semplicemente Scialaruga, come si conviene ad un opera prima; e questa lo è a tutti gli effetti.
Fabio è un sognatore.
Ne ha le migliori qualità: potenza ideativa, ardore, libertà d'immaginazione, fantasia. Molte delle avventure artistiche di cui si è raccontato su queste pagine sono state rese possibili dal coraggio, dalla capacità progettuale, dalla determinazione con cui Fabio ha saputo tradurre in realtà alcuni dei suoi sogni.
Anche il cd “Scaialaruga” è uno scrigno ricolmo di sogni.
La chiave per aprirlo ce la fornisce il primo brano, la danza della Zafrata: ci vuole l'occhio attonito a 360 gradi della lucertola per contemplare con lo sguardo l'universo di suggestioni cui ci accostiamo; ci vogliono, della zafrata, l'immobilismo corazzato e il guizzo fulmineo, ci vuole la Trance di cui dice il titolo, per intraprendere questo viaggio costellato di oniriche visioni. Che non a caso prosegue con una discesa agli inferi, sospesa tra riferimenti letterari e umanissime passioni, nella successiva 'Npernu.
Per questo disco vien voglia di usare una formula che ricorre ciclicamente, con l'andar delle mode, da almeno cinquant'anni: musica psichedelica.
Ma non nel senso didascalico e riduttivo dell'orgia di luci e colori; basti osservare la sobrietà della veste grafica del cd, tra l'ocra e il seppia, con il ripetersi di foto in cui Fabio e Vincenzo Oppedisano sonnecchiano inerti, proprio come fossero rapiti da sogni, allucinazioni, fantasmagorie, che solo addentrandoci nell'ascolto potremo pian piano decifrare.
Le atmosfere si susseguono in turbinìo: dal riflessivo, al frenetico, all'assorto, al circense, fino all'orgoglio della bellissima Esperia, con la voce fenomenale di Mico Corapi.
Poprio in questo brano c'è una strofa che definisce perfettamente la poetica di Fabio:
“Ma 'ncennu dui cosi chi
mi dannu penzeri assai,
li cosi chi cangianu sempi
e chidi chi non cangianu mai...”
Il bianco e il nero, la rigidità di ciò che si vuole immutabile e l'indistinto di quel che muta senza scopo e ragione: nel mezzo c'è il firmamento di tutte le sfumature e mescolanze di colore, quelle a cui Fabio rivolge la sua attenzione, inseguendo ogni immagine, senza timore di perdersi. Perché è guidato da quel che Kubrick, nel suo film “Shining”, chiamò la luccicanza: un misto di lungimiranza, sensibilità, istinto e consapevolezza, che gli consente di far sempre la mossa giusta.
Il Silenziu finale, quando sogni e visioni si vanno smorzando, ci riaccompagna non verso il risveglio, ma dentro un sonno più profondo, che avvolge e custodisce ogni apparizione in un alone favoloso; ci riconsegna al sopore della zafrata, al suo occhio sbarrato, imperturbabile alle cose terrene perché appagato delle meraviglie di cui, per la durata del cd, si è nutrito.
Mujura
Dopo l'esperienza con i primi TaranKhan, e dopo lo straordinario “Albjonica” di cui è stato ideatore e leader, Stefano Simonetta fu voluto al suo fianco da Eugenio Bennato, del cui gruppo Taranta Power è colonna portante dal 2004; il suo apporto non si è limitato al suonare il basso in modo personale e innovativo in centinaia di concerti in giro per il mondo, ma ha investito anche il lavoro di arrangiamento e di registrazione in studio.
Così il bagaglio di conoscenze di Stefano si è fatto ricco, ed ora che è giunto per lui il momento di ritornare nella Locride a registrare il suo primo disco solista, questa sapienza cresciuta nel tempo, posta al servizio del talento che c'era da sempre, ha prodotto un disco bellissimo, un punto d'arrivo da cui non si potrà più prescindere.
Lo pseudonimo che Stefano si è scelto, ad indicare in una sola parola se stesso e la propria opera, è un termine dialettale che significa un cielo gravido di nubi: quello che precede la tempesta, oppure forse l'aprirsi di un inatteso squarcio d'azzurro; un sinistro senso di immanenza che non promette nulla di buono, ma che al tempo stesso non esclude gli esiti più felici; ed è questo senso di urgenza, di attesa fremente e vigile, di speranza accigliata e desiderante, che caratterizza il disco, animandolo di una pulsione che lo rende così intenso ed avvincente in ogni nota.
Un album concept, si sarebbe detto un tempo, che si misura con le contraddizioni, anche le più aspre e attorcigliate, di una Locride sbozzata con inquadrature musicali vivide ed espressive.
Ma il tema centrale, in fin dei conti, è lo sguardo stesso che Stefano rivolge alla sua terra nel momento del suo ritorno, novello Ulisse a Itaca: non c'è da pensare a nulla di limitativamente autobiografico, poiché la lucidità e lo spessore della riflessione e dell'elaborazione sono di qualità non comune. Lo si coglie fin dalla scelta dei linguaggi: la mescolanza di popolare, arcaico e colto che già era stata caratteristica dei testi di Albjonica, e per la musica un impasto originale di tradizione e modernità, manipolato e governato da una ispirazione sicura.
Il ritmo febbricitante di molti brani, così come il lirismo sublime di "Amir", funzionano a meraviglia anche ad un ascolto distratto; ma ogni ascolto più attento rivela sempre nuovi risvolti, schiude prospettive e profondità che non si erano colte prima.
Non c'è canzone che non spicchi per la creatività delle soluzioni compositive e per la fulminante efficacia delle immagini descritte. Ma non si può non menzionare "Blu" (ascoltatelo qui), pezzo a presa rapida costruito su un refrain dal fascino irresistibile e su coloriture armoniche raffinate, con un testo-manifesto che cita, non a caso, Rino Gaetano, alle cui cose migliori può essere accostato.
“Blu... come Roccella in un giorno di maggio...
Blu... come gli oceani guardati dallo spazio...”
Ecco qui riassunte le dimensioni ardite su cui spazia lo sguardo di Mujura, dalla quieta naturalezza dell'appartenenza all'oggettività siderale della distanza.
L'incipit del brano fotografa la Calabria con un'istantanea memorabile:
“Tu, come una scarpa buttata nel mare,
senza poeti che ti sanno cantare...”
Ma ora non è più così: un poeta per cantare la Calabria con tutta la passione, la rabbia, l'intensità, l'amore, la consapevolezza, la fantasia che questa terra difficile esige per sé, adesso c'è.
Possiede la potenza di una maturità espressiva già compiuta, e si chiama Mujura.
Così il bagaglio di conoscenze di Stefano si è fatto ricco, ed ora che è giunto per lui il momento di ritornare nella Locride a registrare il suo primo disco solista, questa sapienza cresciuta nel tempo, posta al servizio del talento che c'era da sempre, ha prodotto un disco bellissimo, un punto d'arrivo da cui non si potrà più prescindere.
Lo pseudonimo che Stefano si è scelto, ad indicare in una sola parola se stesso e la propria opera, è un termine dialettale che significa un cielo gravido di nubi: quello che precede la tempesta, oppure forse l'aprirsi di un inatteso squarcio d'azzurro; un sinistro senso di immanenza che non promette nulla di buono, ma che al tempo stesso non esclude gli esiti più felici; ed è questo senso di urgenza, di attesa fremente e vigile, di speranza accigliata e desiderante, che caratterizza il disco, animandolo di una pulsione che lo rende così intenso ed avvincente in ogni nota.
Un album concept, si sarebbe detto un tempo, che si misura con le contraddizioni, anche le più aspre e attorcigliate, di una Locride sbozzata con inquadrature musicali vivide ed espressive.
Ma il tema centrale, in fin dei conti, è lo sguardo stesso che Stefano rivolge alla sua terra nel momento del suo ritorno, novello Ulisse a Itaca: non c'è da pensare a nulla di limitativamente autobiografico, poiché la lucidità e lo spessore della riflessione e dell'elaborazione sono di qualità non comune. Lo si coglie fin dalla scelta dei linguaggi: la mescolanza di popolare, arcaico e colto che già era stata caratteristica dei testi di Albjonica, e per la musica un impasto originale di tradizione e modernità, manipolato e governato da una ispirazione sicura.
Il ritmo febbricitante di molti brani, così come il lirismo sublime di "Amir", funzionano a meraviglia anche ad un ascolto distratto; ma ogni ascolto più attento rivela sempre nuovi risvolti, schiude prospettive e profondità che non si erano colte prima.
Non c'è canzone che non spicchi per la creatività delle soluzioni compositive e per la fulminante efficacia delle immagini descritte. Ma non si può non menzionare "Blu" (ascoltatelo qui), pezzo a presa rapida costruito su un refrain dal fascino irresistibile e su coloriture armoniche raffinate, con un testo-manifesto che cita, non a caso, Rino Gaetano, alle cui cose migliori può essere accostato.
“Blu... come Roccella in un giorno di maggio...
Blu... come gli oceani guardati dallo spazio...”
Ecco qui riassunte le dimensioni ardite su cui spazia lo sguardo di Mujura, dalla quieta naturalezza dell'appartenenza all'oggettività siderale della distanza.
L'incipit del brano fotografa la Calabria con un'istantanea memorabile:
“Tu, come una scarpa buttata nel mare,
senza poeti che ti sanno cantare...”
Ma ora non è più così: un poeta per cantare la Calabria con tutta la passione, la rabbia, l'intensità, l'amore, la consapevolezza, la fantasia che questa terra difficile esige per sé, adesso c'è.
Possiede la potenza di una maturità espressiva già compiuta, e si chiama Mujura.
Il volo dell'angelo
Ma che c'entra qui questa immagine, che abbiamo visto negli scorsi mesi sui giornali a pubblicizzare una mostra d'arte?
E' un angelo musico di Melozzo da Forlì. E qui proprio di angeliche presenze si parla.
Una decina d'anni fa, nel repertorio dei TaranKhan c'era un brano per chitarra battente composto ed eseguito da Francesco Loccisano: una scintillante meraviglia, s'intitolava “Trantarè”. Lo abbiamo ritrovato nel cd "Battente Italiana" di Loccisano, uscito all'inizio dell'estate scorsa, compendio di anni di riflessioni ed elaborazioni condotte attorno a questo magico strumento, che nella Locride sta vivendo un fulgido rinascimento, per merito innanzitutto proprio delle amorevoli ricerche e del virtuoso suonare di Francesco.
Un altro brano del cd si chiama “Il volo dell'angelo”. Mai titolo fu più appropriato, per descrivere l'atmosfera di rapimento improvviso che caratterizza molti pezzi del disco: come quando un attimo di stupefatta sospensione segnala il passaggio invisibile di un angelo. Ecco il videoclip del brano.
Di Battente Italiana abbiamo già parlato, e a distanza di tempo l'onda lunga che ne accompagna il successo non cessa di mietere apprezzamenti convinti e sollecitare a ritornarci spesso per riascoltarlo, con invariabile gioia dei sensi.
E ancora di altri due angeli musici vorrei dire, riferendo un aneddoto e un sogno raccontatimi da Francesco in persona:
In fase di registrazione del cd Francesco pensò di inserire in un brano, “Samuele”, un breve passo cantato da Mimmo Cavallaro. Così lo propose al produttore, ad Ancona, dove il disco è stato registrato. Pochi versi:
“Quando nascesti tu, nescìu u tesoru...”
La reazione del produttore – come di chiunque ascolti cantare Mimmo per la prima volta! – fu:
“Ma questa è la voce della persona più buona del mondo! Un angelo! La dobbiamo inserire assolutamente!”
Ed è proprio così: in quei due versi, complice l'atmosfera cesellata da Francesco, si esprime la quintessenza universale dell'amore (paterno, nella fattispecie). E vacilla persino la nostra certezza che il fascino della voce di Mimmo stia nelle sue sottili ambiguità tonali; sentito così, nella purezza dei buoni sentimenti, vien voglia di immaginarlo in un disco intero di dolcezze vocali.
Ma l'idea più bella è quella a cui Francesco sta pensando da un po':
in quest'epoca di migranti, di arrivi travagliati e di problematici ambientamenti, Francesco progetta di visitare i campi di accoglienza per censire le abilità musicali di coloro che dai paesi del Mediterraneo sbarcano avventurosamente sulle nostre coste; valorizzare, di questi ospiti, le qualità artistiche e comunicative, piuttosto che sancirne l'estraneità o l'inadeguatezza espressiva. Un modo di creare l'incontro, immediato e profondo, a partire da un patrimonio musicale condiviso e tuttavia ricco di infinite varianti e sfaccettature.
Che felice pensiero, quello di porsi ad ascoltare la parola musicale di chi, momentaneamente sordo e muto ad altre lingue, approda in terra straniera!
Il pensiero di un angelo musico. E non gli assomiglia anche?
E' un angelo musico di Melozzo da Forlì. E qui proprio di angeliche presenze si parla.
Una decina d'anni fa, nel repertorio dei TaranKhan c'era un brano per chitarra battente composto ed eseguito da Francesco Loccisano: una scintillante meraviglia, s'intitolava “Trantarè”. Lo abbiamo ritrovato nel cd "Battente Italiana" di Loccisano, uscito all'inizio dell'estate scorsa, compendio di anni di riflessioni ed elaborazioni condotte attorno a questo magico strumento, che nella Locride sta vivendo un fulgido rinascimento, per merito innanzitutto proprio delle amorevoli ricerche e del virtuoso suonare di Francesco.
Un altro brano del cd si chiama “Il volo dell'angelo”. Mai titolo fu più appropriato, per descrivere l'atmosfera di rapimento improvviso che caratterizza molti pezzi del disco: come quando un attimo di stupefatta sospensione segnala il passaggio invisibile di un angelo. Ecco il videoclip del brano.
Di Battente Italiana abbiamo già parlato, e a distanza di tempo l'onda lunga che ne accompagna il successo non cessa di mietere apprezzamenti convinti e sollecitare a ritornarci spesso per riascoltarlo, con invariabile gioia dei sensi.
E ancora di altri due angeli musici vorrei dire, riferendo un aneddoto e un sogno raccontatimi da Francesco in persona:
In fase di registrazione del cd Francesco pensò di inserire in un brano, “Samuele”, un breve passo cantato da Mimmo Cavallaro. Così lo propose al produttore, ad Ancona, dove il disco è stato registrato. Pochi versi:
“Quando nascesti tu, nescìu u tesoru...”
La reazione del produttore – come di chiunque ascolti cantare Mimmo per la prima volta! – fu:
“Ma questa è la voce della persona più buona del mondo! Un angelo! La dobbiamo inserire assolutamente!”
Ed è proprio così: in quei due versi, complice l'atmosfera cesellata da Francesco, si esprime la quintessenza universale dell'amore (paterno, nella fattispecie). E vacilla persino la nostra certezza che il fascino della voce di Mimmo stia nelle sue sottili ambiguità tonali; sentito così, nella purezza dei buoni sentimenti, vien voglia di immaginarlo in un disco intero di dolcezze vocali.
Ma l'idea più bella è quella a cui Francesco sta pensando da un po':
in quest'epoca di migranti, di arrivi travagliati e di problematici ambientamenti, Francesco progetta di visitare i campi di accoglienza per censire le abilità musicali di coloro che dai paesi del Mediterraneo sbarcano avventurosamente sulle nostre coste; valorizzare, di questi ospiti, le qualità artistiche e comunicative, piuttosto che sancirne l'estraneità o l'inadeguatezza espressiva. Un modo di creare l'incontro, immediato e profondo, a partire da un patrimonio musicale condiviso e tuttavia ricco di infinite varianti e sfaccettature.
Che felice pensiero, quello di porsi ad ascoltare la parola musicale di chi, momentaneamente sordo e muto ad altre lingue, approda in terra straniera!
Il pensiero di un angelo musico. E non gli assomiglia anche?
Torna il Roma Tarantella Festival
Seconda edizione del Festival, l'8 e il 9 luglio, sempre a Villa Carpegna, con la Locride più che mai protagonista: venerdì gli Scialaruga; sabato Francesco Loccisano, Mujura e immancabilmente i TaranProject.
I quattro pilastri di TaranKhan!
La direzione artistica è di Eugenio Bennato.
Anima, cuore, cervello, muscoli e volontà sono del cauloniese d'adozione Valerio Filippi - e mai cittadinanza onoraria fu più meritata di questa.
Ecco il programma.
Serve dirlo? Si annunciano due serate da favola.
Nei commenti i racconti di Francesco Franco e di Giupi, sempre presenti!
I quattro pilastri di TaranKhan!
La direzione artistica è di Eugenio Bennato.
Anima, cuore, cervello, muscoli e volontà sono del cauloniese d'adozione Valerio Filippi - e mai cittadinanza onoraria fu più meritata di questa.
Ecco il programma.
Serve dirlo? Si annunciano due serate da favola.
Nei commenti i racconti di Francesco Franco e di Giupi, sempre presenti!