Ritorno a Lione

Nuova avventura in terra di Francia per i TaranProject: concerto sabato 29 a St. Clair du Rhone, nei pressi di Lione, che già fu meta di una fortunatissima esibizione nel febbraio scorso.
Bon voyage, TiPì !

Leggete nei commenti l'appassionante racconto della serata di Francesco Franco, che ha portato sino a Lione l'entusiasmo del "Danza cu lu ventu...". Eccolo con i musicisti e Giuseppina, arrivata da Milano con Ciccio e Anna.
Anche Giuseppina descrive qui sotto le emozioni speciali che l'incontro con i TP ed il concerto hanno regalato.

Ma quantu vali, 'na gamba di massaru?

E' da oltre un anno che ci lasciamo immagare da questa canzone, e ancora – almeno è così per me – non ci riesce di dir le ragioni del suo fascino sempre nuovo.
Sicuramente la melodia è di presa immediata, con quell'incedere ondulante e seduttivo che è caratteristico di tanti brani di Mimmo; sicuramente il ritornello è irresistibile e luminoso, ha una rotondità levigata che invoglia a giocarci senza posa, e la frase musicale della lira ha una deliziosa spensieratezza malinconica; come sempre, il canto è avvolgente e conquistatore, e in unisono con Giovanna diviene puro piacere dei sensi. Ma tutto questo non basta. C'è qualcosa che cattura, avvince, e poi sfugge in mille direzioni, spingendoci a seguire il filo di impreviste trame emotive, a esplorare inediti scorci prospettici.
Questa, potremmo dire, è la prima canzone in 3D.
Ciò dipende ovviamente anche dal testo, un intreccio inestricabile di desideri, capricci, pensieri malvagi, che guizzano come pesciolini argentati nelle mille risonanze del timbro vocale di Mimmo.

Al centro della scena è il Massaro, cioè l'affittuario, o amministratore, della masseria: figura ibrida di suo, ben distinto dai contadini e pastori nella raffigurazione sociale, e però ai margini della casta dei nobili e proprietari, collocato in un crocevia di aspirazioni e cupidigie di cui egli è al tempo stesso oggetto e attore.
Il testo è fratturato in due ante speculari: nella prima è il massaro a ingolosire la bella promettendole beni materiali e agiatezze, che lei farebbe bene ad anteporre all'amore per il “bruttu craparu”; nella seconda è la moglie del marinaio a invocare addirittura la complicità di San Nicola per la sua macchinazione omicida, per poter così coronare il sogno di un favoloso matrimonio d'interesse col massaro.
Nel mezzo una dedica amorosa della più pura e alata poesia, che chiama gli inscalfibili Sole e Luna a propri araldi, e che sembra non c'entrare per nulla con gli umori impazienti e gretti delle altre strofe. Invece ci sta a meraviglia, e proprio perché crea quei forti contrasti in controluce che danno volume e realismo ai personaggi e ai loro sentimenti.
E a ben guardare rivela, negli ultimi versi, tutta la potenza dell'ambiguità: è il Sole cocente a provocare l'abbaglio della mente, a generare quella frase dolce come il miele - Se 'on bìju a tia 'on bìju nenti – che subito ci è parsa la quintessenza dell'amore, ma che in filigrana descrive anche la ragione profonda degli istinti egoisti e malevoli: l'accecamento, l'incapacità di vedere l'altro da sé.
Impossibile, in questa narrazione, scindere il bene dal male: è un rompicapo sentimentale che non si lascia decifrare del tutto, complicato come lo è la vita.
Bello e inesauribile per questo.


U MASSARU

Se voi mangiari pane de maise
Pigghjate nu massaru ohi donna bella!
Nun ti prejari du carzuni tisu,
Chi ti porta lu pani in tuvagliella.
De mille amanti tu tenive pisca,
E ti pigghjiasti nu bruttu craparu.

Lu mari, lu mari, lu mari è fundu,
L’amuri mia a tia ti dugnu.
La luna, la luna esti lucenti,
L’amuri mia a tia pe sempri.
Lu suli, lu suli esti cocenti,
Si 'on biju a tia 'on biju nenti.

T’innamurasti d'a ricotta frisca,
Va vidi a lu granaru si c’è 'ranu.

Parti lu marinaru e va pe mari,
Dassa menza cinchina alla mugghjieri:
Mugghjieri mia accattancindi pani
‘nzicchè ‘nci vaju e vegnu di Missina.

Lu mari, lu mari, lu mari è fundu,
L’amuri mia a tia ti dugnu.
La luna, la luna esti lucenti,
L’amuri mia a tia pe sempri.
Lu suli, lu suli esti cocenti,
Si 'on biju a tia 'on biju nenti.

Santu Nicola meu fallu annigari,
Ca non mi curu ca restu cattiva,
Ca quantu vali 'na gamba di massaru
Non vali na barca cu' triccentu rimi.

Lu mari, lu mari, lu mari è fundu,
L’amuri mia a tia ti dugnu.
La luna, la luna esti lucenti,
L’amuri mia a tia pe sempri.
Lu suli, lu suli esti cocenti,
Si 'on biju a tia 'on biju nenti.

(Nei commenti la traduzione in italiano)

Citula d'argentu

Qual è la canzone più bella dei TaranProject? Quella che anche tra cent'anni ascolteranno con la considerazione devota che si tributa agli immortali?
Impossibile rispondere. Troppo lacerante lo strazio di lasciare questa o quell'altra per prenderne una sola.
Ma una cosa è fuor di dubbio: se prima di arrivare al verdetto ci fosse da compilare una rosa di papabili, diciamo dieci, Citula d'argento ci sarebbe. Anche se la rosa fosse una cinquina, ci sarebbe. E se fosse solo una terna, ugualmente, sono sicuro, ci sarebbe. Perché questo brano è un'opera d'arte senza tempo e luogo, un assoluto in musica.

Domanda di riserva: ma che cos'è questa Citula?
Lo chiedono in molti. E cos'è, piuttosto, questo Duduk? ribatterei. Perché è dal duduk che si deve partire, dalla melodia evocativa e straniante, misteriosa e dolcissima, che Gabriele intona all'introduzione con questo flauto armeno, trasportandoci sul tappeto volante verso le steppe arse dal sole e i ventosi altipiani, così singolarmente somiglianti a certi paesaggi aspromontani, ma in più maestose dimensioni.
E' il regno del Lupo a passo lento – non saprei immaginare definizione più fulminante e perfetta per scolpire il carattere fiero e generoso di Cosimo Papandrea - lui che all'abbaiar dei cani non si “spagna” (ma guarda un po' che coincidenza!), fa le cose a tempo e mai si pente, e, come un maestro zen, ci rivela la più profonda e schietta verità: senza lievito non si fa pane.
E un pane saporito e saziante sono per noi le sue canzoni.

La melodia e l'arrangiamento hanno un'apertura, una spazialità incredibili, un moto ascensionale che fa divampare la passione in un ciclone benevolente, scortando il sospiro ambasciatore fin lassù, dove le bellezze e virtù dell'amata si comparano con la Luna, destinata a soccombere nel confronto.
Ecco l'esecuzione dell'agosto 2010 a Cittanova (video by miospazioan)


Quando irrompe la voce di Giovanna, per poi rilanciare l'ultimo ritornello di Cosimo, è l'estasi: restiamo a bocca aperta a rimirare la possanza di questa volta affrescata in cui l'ingegno compositivo si combina con un pathos travolgente.
Sì, ne sono certo: tra cent'anni l'ascolteranno ancora, e ancora non sapranno decidersi, se esserne più ammirati o emozionati.

Ah, dimenticavo la citula: si tratta di una lira un po' più grande, quasi una cetra, e si suonava già nel Rinascimento. Anzi, ricordate? A Roma nelle Stanze Vaticane, la “Scuola di Atene” di Raffaello, dove son ritratti gli illustri e i sapienti di ogni epoca, Socrate, Euclide, Leonardo da Vinci... accovacciato, pare ci sia un suonatore di citula: sì, è Cosimo da Gejusa!

Citula d'Argentu

Chitarra d’oru e citula d’argentu
Fati sentiri stu sonu ‘mperiali.
Canzuni aju a cantari chjiù di centu,
Mu schiatta cu non voli e parra mali.
Eu su comu lu lupu a passu lentu,
E non mi spagnu si bajiunu i cani,
Li cosi fazzu a tempu e mai mi pentu,
Ca senza levitu non si faci pani.

La luna è janca e vui brunetta siti,
Ija è d’argentu e vui l’oru portati,
Ija si scura e vui ca la vinciti,
Ija s’accrissa e vui non v’accrissati.
Vui lu suli e la luna ca vi uniti,
Ma ne suli e no luna vi chjiamati.

Si lu suspiru avissi la parola
Chi bellu ‘mbasciaturi chi sarria!
Parti suspiru cu lu ventu vola
Vai a trovari tu la bella mia.
Eu t’amu quantu poti n’omu amari
Ti vogghjiu beni chjiù chi ti volìa.

La luna è janca e vui brunetta siti,
Ija è d’argentu e vui l’oru portati,
Ija si scura e vui ca la vinciti,
Ija s’accrissa e vui non v’accrissati.
Vui lu suli e la luna ca vi uniti,
Ma ne suli e no luna vi chjiamati.

(canta Giovanna)
“La luna ammanca e vui sempri crisciti,
ija perdi la luci e vui la dati...
E si l’arrivi penzerusa e sula,
dinci ca chistu cori la desìa"

La luna è janca e vui brunetta siti,
Ija è d’argentu e vui l’oru portati,
Ija si scura e vui ca la vinciti,
Ija s’accrissa e vui non v’accrissati.
Vui lu suli e la luna ca vi uniti,
Ma ne suli e no luna vi chjiamati.

(nei commenti la traduzione in italiano)

Vurrìa

Vorrei: l'onnipotenza del desiderare, la virtù creativa di un sentimento totalizzante, che vuol essere per l'amato sole mare cielo e terra in una volta.
Un turbinoso canto notturno, impastato di sogni e icastiche visioni: una fontana presso cui suona una “corda strana”, in un giardino incantato adorno di voli d'uccelli, che disegnano melodiosi fuochi d'artificio.
La musica pensata da Giovanna vive di fiotti e sospensioni, esprime come meglio non si potrebbe lo sgorgare dell'amore e le sue delicatezze, e lei è maestra nel modulare la voce tra slancio e misura, fino al finale irresistibilmente conquistatore.
Nel video (di u2lucky77) l'esecuzione di Ferragosto 2010 a Stilo.


C'è un verso che ha sollecitato la curiosità interpretativa di molti: “La fata di lu munti e di la serra, mu ciangiu li to peni in cuntentizza”.
Ciangiu o Cangiu? Per piangere o Per cambiare?
Quest'ultima lettura sembrerebbe la più ovvia, giacché le fate lo fanno per mestiere di cambiare, trasformare; e quindi potranno ben tramutare i dolori in gioie.
Invece Giovanna ci assicura che l'antica pergamena reca scritto proprio "ciangiu”, e ci suggerisce un'interpretazione ben più sottile e suggestiva: vorrei essere una fata per piangere con te le tue pene, fino a trasformarle in contentezza; un pianto compassionevole e catartico, dunque, un assumere su di sè i dolori dell'amato fino a dissolverli in un sollievo liberatore, che nel volgere in transitivo il verbo piangere esprime perfino una connotazione linguistica di condivisione emotiva.
Chissà se questo Ciangiu sarà stato pensato e scritto proprio così, dal remoto autore; ma in fondo non importa molto, ché anzi ci piace ancor di più pensare che un occasionale refuso abbia trasfigurato un concetto tutto sommato scontato, il tocco magico della fata, in un'immagine insolita e commovente: una fata umanissima che, anziché semplicemente sfiorarci con la sua bacchetta, ci tenga tra sue le braccia e pianga con noi le nostre lacrime, fino a stemperarne l'amaro e distillarne un'acqua pura e vivificante.

VURRIA

Vorria mu su n’arcejiu i paradisu,
'n'aquila d’oru chi ti porta ’ncielu,
cu ll’occhji dintra s’occhji di surrisu,
arrivutata ‘nta nu jancu velu.

Suli mu sugnu e mu ti fazzu strata,
aquila chi t’accurcia li camini.
Vorria mu su 'na rosa profumata,
'na rosa di villutu senza spini.

Ciangi la vita mia comu sta corda strana,
veni anima mia t’aspettu a la funtana.
Veni chjanu chjanu, parrami vicinu,
stasira l’arceji cantanu ‘nta su giardinu.

Vorria mu sugnu l’unda di lu mari,
lu raggiu di lu suli e di la stija,
quantu eu mu ti pozzu carizzari
sa facci di palumbu picciriju.

Suli mu sugnu, e mari e cielu e terra,
tuttu mu sugnu pe' a bellizza tua,
la fata di lu munti e di la serra
mu ciangiu li to peni in cuntentizza.

Ciangi la vita mia comu sta corda strana,
veni anima mia t’aspettu a la funtana.
Veni chjanu chjanu, parrami vicinu,
stasira l’arceji cantanu ‘nta su giardinu!

(Nei commenti la traduzione in italiano)

Tre d'amore

Continuiamo ad assaporare i profumi dei rifiorenti Hjuri di Hjumari, soffermandoci finalmente su alcune canzoni del cd.
Forse per la fortuna di aver avuto fin da subito i testi tutti disponibili sulle pagine del blog, non c'era ancora stata l'occasione di concentrare l'attenzione sui singoli brani, come abbiamo fatto per molti dei classici di Mimmo e Cosimo di cui magari era meno facile reperire il testo, e di recente per i brani nuovi di quest'anno.
E' ora di iniziare a colmare questa lacuna, e lo farò celebrando i tre brani forse più rappresentativi dei tre autori e cantanti; o forse semplicemente i miei preferiti, quelli che in tutti questi mesi ho amato un filino più degli altri.
Cominceremo dando ali al desiderio con Vurrìa,
per librarci poi verso l'empireo dove abitano Citula d'argentu e Massaru.

I nuovi Hjuri di Hjumari

I giornali riferiscono che questo è stato il settembre più caldo degli ultimi 150 anni, e si son visti gli alberi rifiorire in autunno.
La colpa è dei TaranProject.
Sono stati loro i primi a dare il la a questa primavera di ritorno: a settembre infatti sono sbocciati di nuovo i loro fiori di fiumare, con l'avvio della distribuzione nazionale del cd.

Pubblicato alla fine di agosto 2010 nella sua prima versione, miracolosamente assemblata sottraendo le ore al sonno tra un concerto e l'altro, “Hjuri di Hjumari” era da tempo esaurito.
La nuova versione, completamente rinnovata nella grafica e un pochino anche nei suoni, e arricchita di un bonus track, è dapprima apparsa quest'estate ai concerti... per andare di nuovo presto esaurita! A fine agosto non se ne trovava già più una copia.
Ma ecco finalmente la stampa ufficiale: il cd è ora disponibile presso tutti i negozi, le catene Fnac e Feltrinelli e i principali distributori su internet.
Rimando alla recensione del disco, ma vorrei soffermarmi sulle novità.

La copertina mostra, in sciccoso oro su nero, l'albero umano che è stato l'emblema del Tour 2011, ed è elegante e preziosa.
Di alcuni brani sono state registrate nuove esecuzioni, al NunuLab di Carmelo Scarfò a Mammola, mentre della masterizzazione si è occupato Fabrizio De Carolis a Roma.
E' da qui che sono scaturite alcune differenze, non grandi ma chiaramente percepibili, rispetto alla prima versione: in generale il suono è più dettagliato e limpido, i vari strumenti e le voci si distinguono con maggior nitore, è come se un'atmosfera più rarefatta e pacata invitasse ad un ascolto meno emotivo, e tuttavia di più agevole lettura; alcuni brani sicuramente ne guadagnano, e vorrei citare in particolare “U salutu”: è quello che più di tutti, in seconda fioritura, ha acquistato in fragranza e colore; liberatosi dal bozzolo di un suono che prima era un po' impastato, è divenuto una maestosa farfalla che vola in alto e risplende, una delle vette del cd.
Sicuramente con queste sonorità che valorizzano le chitarre e sacrificano un po' i bassi, più orientate alla dimensione pop, con le meravigliose voci di Mimmo, Cosimo e Giovanna in primo piano e molto ben caratterizzate, il disco avrà più facile accesso ad un orecchio che non conosca già le canzoni e i musicisti.
Forse si è in parte attenuato l'impatto epico, la travolgente vitalità della prima edizione, i TaranProject appaiono un po' meno “cervo uscito di foresta” (perdonatemi la citazione insolita: così l'allenatore di calcio Vujadin Boskov descrisse, una ventina d'anni fa, lo stagliarsi palla al piede, sulla soglia dell'area avversaria, dello straripante campione Ruud Gullit), ma d'altra parte il prodotto finale che qui risulta è il perfetto biglietto di presentazione da indirizzare a una platea nazionale.

Soprattutto, c'è da dire del brano in più: si tratta nientemeno che di “Stilla Chjara”, la canzone che più di ogni altra commuove e trascina il pubblico, e che da sempre segna uno dei momenti magici del concerto. Fa un certo effetto sentirla per la prima volta suonata in studio, dopo che in decine di occasioni l'abbiamo ascoltata, vissuta, goduta dal vivo, cantata in coro nelle piazze, in innumerevoli repliche di un originale che fino a oggi non c'era. Adesso c'è, ed è splendente intensa e compiuta, ricca della sapienza maturata in questo suo nascere a rovescio, a suggello di una gloriosa milizia carica di onori: non è stata impresa da poco cristallizzare una Stilla Chjara definitiva, eppure Cosimo c'è riuscito con un'interpretazione magistrale (cantando in un solo take tutta la canzone! - ci hanno raccontato), mentre la pipita di Gabriele vi ha apposto quel sigillo arabescato che la rende perfetta.

Mi resta un'ultima riflessione, a distanza di sedici mesi dalla comparsa di questi brani:
in prospettiva, risalta più che mai lo straordinario atto creativo con cui i TaranProject hanno saputo crescere rispetto al loro precedente repertorio, acclamatissimo e vincente; con coraggiosa passione hanno proposto una dozzina di canzoni ben più complesse ed elaborate, ricche di sfaccettature nuove e arrangiamenti inediti; capaci di misurarsi con le spagne e le mulinarelle degli anni scorsi - divenute nel frattempo patrimonio usurpato da miriadi di emuli - e uscirne con la forza poetica e lo spessore artistico di uno stile personale che, lo possiamo ben dire, reca ora l'inconfondibile e inarrivabile marchio TaranProject.

Link a Tre d'amore.